domenica 28 giugno 2020

Novella 13: PENA CAPITALE


Tribunale di Brema (Germania)
Sentenza nr. 151.0195.8 del 28 giugno 2020

Gentile Signore,
questo Tribunale riunito in seduta plenaria L'ha ritenuta colpevole dei reati ascrittiLe, e pertanto La condanna alla pena capitale. 
La sentenza verrà eseguita domani in modalità coperta da segreto, come vuole la prassi.
In considerazione della buona condotta tenuta durante il processo e delle attenuanti generiche, Le viene concesso un giorno di libertà condizionale. Di conseguenza, Lei può sin d'ora lasciare il carcere e tornare a casa per trascorrervi il tempo rimanente, pari a circa 22 ore. Domattina, alle sette precise, due gendarmi muniti di ordini scritti verranno a prelevarLa per condurLa al luogo di esecuzione. Voglia cortesemente, per quell'ora, farsi trovare sveglio, in ordine e pronto al trasferimento.

Vivendo solo, mi sono chiesto: chi vorrei avere accanto in queste ore?
Mia madre assolutamente no... è molto anziana, non sa nulla di tutta la vicenda e preferisco che ne rimanga all'oscuro.
Forse mia sorella? Per carità - ha già i suoi bei guai. Ha assistito fra il pubblico a due udienze, ma poi mi ha fatto sapere che non avrebbe più potuto esserci. Magari verrebbe, però non mi va di disturbarla.
Ho un paio di cugini, ma dopo il mio arresto si sono premurati di far sapere a più persone possibile che da tempo avevano chiuso ogni rapporto con me.
C'è la mia ex, naturalmente. In carcere mi è arrivata una sua lettera piuttosto affettuosa - peccato non averle potuto rispondere: l'avvocato mi aveva vietato di scrivere a chicchessia, per non compromettere la strategia di difesa. Fosse almeno servito a qualcosa! In ogni caso no, non mi sembra opportuno: nel frattempo si è rifatta una vita, e tutto il resto.
Amici ne avevo, certo. Ma non ne trovo nemmeno uno adatto: non ho mai veramente scambiato confidenze; né io con loro, né loro con me. Meglio di no.

A forza di lambiccarmi si è fatta ora di cena. Come vola il tempo, quando si ha da pensare!
Ho aperto il frigorifero, ma erano mesi che nessuno lo faceva e un odore acre ha invaso la cucina. Fa questo effetto la carne, quando si decompone. 
Per fortuna non avevo molta fame: forse per il caldo.

Comunque su qualcuno l'odore di carne avariata esercita una certa attrattiva. Difatti alla finestra si è affacciato un gatto.
La vetrata era spalancata per via dell'odore, ma lui ci ha messo un po' prima di decidersi. Sì sa, i gatti ci vanno sempre prudenti.
Era un grosso gatto rispettabile, dal muso corrugato e le orecchie scorticate da chissà quali e quante battaglie. Doveva essere il re del quartiere, almeno per la colonia felina.
Alla fine è entrato con grande circospezione e si è messo ad annusare ogni angolo. L'ho seguito spostarsi senza fare il minimo rumore; l'ho spiato mentre, era evidente, si faceva un'idea sempre più chiara del luogo e della situazione.
Un gatto.
Infine si è seduto (penso si possa dire così quando un gatto mette a terra il didietro, restando con le zampe davanti diritte) ed ha iniziato a guardarmi negli occhi.
Ora io non sono sicuro che con quello sguardo volesse proprio dirmi ciò che ho inteso; però lui continuava a fissarmi con un'aria... un'aria che definirei mista di commiserazione e di simpatia. Ma non solo questo. Anche di vaga presa in giro. 
Più questo grosso gatto mi guardava, e più io mi sentivo a disagio. Anzi, dirò di più: iniziavo a sentirmi un gran minchione!
Ho riconsiderato la mia situazione complessiva, e l'ho trovata insoddisfacente. Per la prima volta mi sono sentito vittima di una sorta di macchinazione.
Ho anche pensato che non tutto era deciso e scolpito nel marmo come sembrava.

Ci ho pensato su ancora a lungo, durante quella notte. 

Alle sette meno un quarto mi sono alzato dalla sedia, ho dato una carezza al gattone, che nel frattempo si era appisolato, ho aperto la porta e me ne sono uscito con calma. Fuori non c'era nessuno: la fuga, da queste parti, non è ritenuta un rischio. Ho girato a sinistra e ho seguito la strada per una lunga tratta; successivamente mi sono fatto guidare dall'istinto.

Adesso sto scrivendo all'ombra di un grande tiglio. Grazie a quel gatto sono sollevato, allegro e senza alcun rimorso per aver contravvenuto alla legge. Non so se mi stanno cercando. Ne dubito, e comunque non sarà facile trovarmi, in questa remota isola felice.

Novella 12: PARLARE STRANO


Fu verso i sei anni che Gennaro smise di parlare. Così, da un giorno all'altro: senza una ragione, non proferì più verbo.
I genitori dapprima ci scherzarono su; poi provarono a risolvere il problema da soli. Visto il totale insuccesso, sempre più preoccupati, portarono il figlio dai migliori medici della città, ma risultò che l'apparato acustico e quello vocale erano in perfetto ordine; allora consultarono un valente psichiatra, il quale certificò che anche quanto a testa Gennaro era perfettamente normale.
Infine, disperati, si misero nelle mani di un noto psicanalista. Questi ebbe Gennaro in cura per oltre un anno. Sedute in perfetto mutismo da cui solo lui, lo psicanalista appunto, diceva di ricavare preziose informazioni, anche se sempre allo stato embrionale e tutte da verificare. Passò poi ad analizzare i genitori. 
Per farla breve, non riuscì a risolvere il problema; però identificò nella madre la colpevole, perché fin dal tempo dell'allattamento...
Così, un'ombra ulteriore si insinuò fra i due coniugi già tanto provati: lei infatti aveva l'impressione che il marito, per quanto cercasse di consolarla, sotto sotto credesse a quella assurda spiegazione.
Finì che la madre, per protesta, smise di parlare anche lei, e in casa si produsse un silenzio irreale, rotto soltanto, ma di rado, dalle imprecazioni del padre quando aveva esaurito la sua dose di santa pazienza. Perfino Bunny, il cagnolino, sembrava che capisse, e si atteneva a un prudente riserbo. Tranne quando passava il camion della raccolta rifiuti: allora non sapeva resistere, e abbaiava furiosamente finché quello non era scomparso dietro la curva della strada.
Passarono i mesi, e poi passarono gli anni. La madre aveva ripreso a parlare di fronte a un tubino di Armani, adocchiato nella vetrina di un negozio. Quanto a Gennaro, invece, il padre aveva convinto gli insegnanti a interrogarlo solo per iscritto. Da parte loro, quelli erano stati ben lieti di accettare, visto che Gennaro era di gran lunga il meno guastafeste di tutti i compagni.
Studiava con un certo profitto: eccelleva nelle materie umanistiche, e il liceo classico fu la scelta più naturale quando si trattò di trovare una superiore adatta a lui. Ma quanto a parlare, nulla di nulla.
Pian piano i genitori si abituarono, o meglio si rassegnarono a quella stranezza. Di amici Gennaro non ne aveva molti, ma quelli che aveva parlavano parecchio loro, e si contentavano di vederlo annuire, o al contrario esprimere dinieghi.

Finché un giorno, anzi proprio il giorno che Gennaro compiva 16 anni, il vecchio Bunny gli si accostò mugolando, e Gennaro rispose.
Rispose con voce ferma e chiara.
Ma rispose così:

Del tuo giorno, Bunny,
s'appresta l'occaso.
Di gioie e d'affanni
in cerca col naso
non correrai più. 

Figuriamoci i genitori! Si precipitarono da lui e gli si rivolsero con voci trèpide, chiedendogli questo e quello. Anche il cagnolino faceva festa, pur senza capire che cosa gli fosse stato detto di tanto importante. 
Il fatto è che neppure i genitori avevano ben capito che cosa avesse detto esattamente.
Ma non importava! Gennaro aveva parlato!
E lui riprese, rivolto a loro stavolta:

È salda la voce 
ma incerto il mio cuore.
Un vincolo atroce,
un vivo dolore
opprime il mio petto,
conturba il mio detto!

"Ma..."
"Embè? Parla in versi - tagliò corto il padre - E' strano sì, ma gli passerà". 
Non sarebbe andata proprio così.