E’ l’alba. Firenze, città di solito avara di riconoscenza, rende grazie al riscaldamento globale: aprile è ancora giovane, ma un sole precoce benedice i turisti che vagano senza una meta apparente, quasi in costume da bagno, lungo le vie del centro. Danno un senso di svogliata pigrizia che la fretta dei commessi del carico e scarico, indaffarati coi loro furgoni di fronte a bandoni mezzi chiusi, non riesce a contrastare. Un camion enorme aggancia un cassonetto e ne preleva rumorosamente il contenuto. Le sofisticate, costosissime ma ormai inutili aperture a chiave dei bidoni, divelte e spalancate come fauci di animali preistorici, lasciano già emergere i miasmi tipici dell’estate.
E’ l’alba dunque,
ma per gli studenti delle università per stranieri è ancora la sera prima. Il
bicchierone che hanno in mano da ore contiene ancora alcol, acquistato più e
più volte nei negozietti di cibo e liquori che hanno sostituito i vecchi atelier
di artigiani. Si riconoscono dai cartelli con la scritta “Open 24h” a led rossi lampeggianti in campo nero. Dentro, un sonnacchioso
inserviente indiano sorveglia quattro cibarie che nessuno compra, e i liquori
che sono il suo core business.
Dal
portone di uno dei tanti Student Hotel
fa capolino una coppia di americani attempati. L’ultimo titolo di studio devono
averlo conseguito nel Kansas qualche decennio fa. A dispetto del nome, qui di studenti
nemmeno l’ombra, tanto nessuno controlla. Al piano ammezzato, al lume ancora
debole del nuovo giorno, un solerte impiegato amministrativo dai tratti
orientali fa i conti dei ricavi di ieri, e prepara il cash pooling: trasferisce il denaro dalla banca locale a quella
della casamadre in Olanda. Deduce soltanto lo strettissimo necessario alle
spese vive, fra cui il proprio misero stipendio. Di questo ricco business, è
tutto ciò che rimane in città.
Intanto un
signore con secchio e stracci entra in un appartamentino di via Maffia. E’ il
proprietario, e deve fare il cambio di ospiti nel giro di poche ore. Prima viveva
lì, ma si è trasferito in un ambiente più confortevole in periferia e affitta
la sua casina su internet. Ha resistito alle lusinghe di società anonime, che
vorrebbero appropriarsi della gestione. No, lui fa da solo, paga le tasse al
Comune, oltre che allo Stato, e anche il netto dei suoi ricavi rimane in
circolo a Firenze. Via Maffia, prima luogo di degrado e abbandono, ora è
ordinata e tranquilla.
Piano
piano si sono fatte le dieci del mattino. Piazza dei Pitti è un grande scivolo
di ghiaia cementata che dal Palazzo scende fino alle case di fronte. I turisti in
attesa di entrare al museo sono seduti per terra, perché nel Rinascimento le
panchine lì non c’erano, e dunque non possono esserci neppure adesso. Una
coppia di vigili li fa alzare tutti in piedi, per il decoro. Sono un po’ nervosi,
i due, perché oggi sono comandati in via de’Neri, dove si è già radunata la
solita ressa davanti a un negozio che vende panini. Lì il mestiere di vigile
diventa più complicato: devi farti vedere, magari comparire nei selfie di
qualche deficiente, ma non puoi, né devi, disturbare la gente in coda, e
neppure quella che, conquistato il panino, siede sui gradini dei palazzi a
consumare. Pingui piccioni si contendono avanzi unti di maionese.
Sì, sono
le dieci, e turisti ignari già siedono nei déhors
dei ristoranti di piazza della Repubblica. I déhors sono orribili fabbricati di metallo e plastica, soggetti
alla necessaria ma instabile autorizzazione del Comune, che occupano e
ricoprono buona parte della piazza. Da menu provvisti di foto esplicative gli
stranieri hanno ordinato spaghetti con meat
balls, o una carbonara. Per le 10:30 avranno già consumato il pasto e, per
finire, potranno ordinare un bel cappuccino. Solo più tardi, nelle vie
dintorno, si infittirà l’andirivieni dei ciclisti con sacca di cibarie sulla
schiena, per le consegne a domicilio. Partono un po’ più tardi, perché gli
italiani, prevalenti destinatari, rispettano gli orari di pranzo e cena. Le
bici sfrecciano in contromano, affrontano semafori rossi e stop con arrogante spavalderia,
ma il cibo arriverà in tavola comunque semifreddo.
Dio, Dio,
la giornata sarà ancora lunga! Vi prego, ditemi che cosa fare!
Mi
avvicino senza neppure accorgermene alla Loggia dei Lanzi, la supero senza
fermarmi. Mi metto in coda per gli Uffizi. La coda è lunghissima, quasi più di
quella dei panini. La noia, che volevo evitare, mi si para davanti.
Alle undici,
senza aver fatto che pochi passi verso l’ingresso, rinuncio e salgo fino al
Piazzale Michelangelo. Buona parte della terrazza, che qualche non imparziale definizione
vorrebbe “la più bella del mondo”, è occupata da auto e pullman colossali. Mi
assale il sogno di un parcheggio sotterraneo, ma non è che una sciocca
fantasia: chissà quanti sono i motivi per non farlo. Del resto oggi il famoso
Piazzale è ingombro anche di una ventina di tende a padiglione, in bella riga.
Si tratta di un cosiddetto “Festival della pizza”, e quello non c’è proprio modo
di trasferirlo sotto terra, come sarebbe il caso.
Su un altro
lato del Piazzale si sta svolgendo un matrimonio cinese, uno dei tanti. Si
tratta di un pacchetto “all inclusive” sempre identico: l’immancabile limousine
lunga almeno dieci metri è infiocchettata per l’occasione. La sposa è in
bianco, mentre lui è infagottato in un abito che viene passato da uno sposo
all’altro senza riguardo per le misure. Fra poco i due saliranno sulla
limousine che li porterà in due o tre luoghi precisi per le foto di prammatica:
la scala di San Miniato, e poi il monumentale cedro del Libano nel giardino un
tempo noto come “Tivoli”, poco più in basso. Lì il fotografo li comanderà a
bacchetta, imponendo pose spericolate, baci contorti, abbracci inverosimili, creando
loro una memoria di momenti mai accaduti da spedire, forse, ai parenti rimasti
in Cina.
La
limousine, con le sue dimensioni fuori controllo, contende il parcheggio,
peraltro vietato, a una Ferrari rossa fiammante. Un commesso sussiegoso quanto
un telecronista sportivo spiega che per 50 euro ti consegnerà la macchina per
un giro di 5 minuti sul viale dei Colli. La webcam installata dietro il sedile
di guida, se ho ben capito, è compresa nel prezzo. Subito si crea una coda di
aspiranti ferraristi, tutti maschi ovviamente. Le mogli, o fidanzate, non so se
potranno montare in macchina, o se dovranno aspettare il ritorno di lui, che
sfoggerà un sorriso inebriato.
Dio, Dio,
quanto è lunga la giornata!
Prendo un
“13” e sbarco a Porta Romana. Da lì vorrei andare verso il centro, ma il bus 11,
in piazza della Calza, è annunciato dopo ben 45 minuti. Un gruppo di anziani
staziona alla fermata. Pare che questo sia il tempo normale di attesa, anche
senza considerare i frequenti salti di corse. Dopo un po’ a qualcuno viene un
dubbio: non avranno cambiato percorso? Un volontario esce dalla porta e guarda
la fermata dei bus sulla destra. Effettivamente un cartello informa che l’11,
provvisoriamente, non passa più da via Romana, interrotta per lavori, ma gira
all’esterno delle mura. Il volontario, temendo di perdere il prossimo
passaggio, non torna indietro fino a noi, ma si sbraccia da lontano, cercando
di farci capire che bisogna raggiungerlo. Dò il braccio a un’anziana e ci
incamminiamo in gruppo verso la fermata fuori le mura. Ma quando siamo a mezza
strada, un 11 arriva sferragliando e imbocca deciso la via Romana…. Si vede che
il cartello era vecchio e non aggiornato. Non ce la facciamo a tornare alla
fermata, e così il bus è perso! Non rimane che aspettare altri 45 minuti, a
meno di incamminarci a piedi. Tento la strada col mio bastone, e rinuncio.
Decido di
provare con un taxi. Mi dirigo all’apposita zona di sosta. Ovviamente è vuota e
mi accingo ad aspettare con un piccolo gruppetto di altri clienti. Dopo qualche
minuto arriva la prima macchina, e dopo pochi altri anche una seconda. Entrambe
viaggiavano con la scritta Taxi già spenta. Significa che avevano già fatto
partire il tassametro chissà quando, e ovviamente non lo azzerano alla
ripartenza. Finalmente arriva anche il mio taxi, e non ho il coraggio di fargli
notare che mi sta truffando. Del resto, deve essere una prassi molto comune,
come ho potuto capire dalle altre auto prima di questa. E il tassista sfoggia
una invidiabile faccia di bronzo. All’arrivo, vicino a piazza del Duomo, il
tassametro segna la cifra sbalorditiva di quasi 20 euro, ma il driver preme un misterioso
bottone, poi un altro e un altro, e l’importo diventa 28 euro, per un tragitto
di un paio di chilometri. La scarna conversazione si è svolta tutta in inglese,
perché ormai solo gli stranieri prendono il taxi, e anche io sono stato
scambiato per americano.
Il
tassista però non ha tutti i torti: la strada è un percorso di guerra fra
cantieri, cartelli di pericolo, transenne, sensi unici invertiti… fra tutti i
lavori in corso molti sono quelli dell’acquedotto, che infatti fa acqua da
tutte le parti. Non si contano le perdite che emergono da sotto la superficie
per finire nelle fogne. E le buche nell’impiantito, ormai lontano parente di
una strada asfaltata, fanno sobbalzare a ogni metro, mettendo a dura prova gli
ammortizzatori. Il tassista mi racconta che tempo fa ha rovinato l’auto con una
di queste buche ma il Comune non lo ha voluto risarcire, e il giudice ha respinto
la richiesta di ristoro per la ragione che il conducente deve vigilare, e ha
tutto il tempo di capire se è il caso o no di entrare nella buca.
La tramvia
non arriva dalle mie parti, ma vi salgo per provarla. E’ molto spaziosa e
comoda, ci mancherebbe: infatti è un vero e proprio treno, certamente troppo
grande per il centro città, ma che ci vogliamo fare? Pare che non vi fossero
soluzioni alternative, e che quelle adottate da tante città all’estero fossero
tutte incompatibili. Da noi, a Firenze, le soluzioni semplici non sono ammesse.
Il percorso della tramvia è una vera linea ferroviaria, con tanto di gradino
sopraelevato che impedisce l’attraversamento alle auto. Colossali piloni neri
sorreggono un intrico di cavi elettrici, che a Firenze non era possibile
interrare come in altre città. Siamo fatti così, noi fiorentini. In alcune vie
il treno passa così a ridosso delle case che sfiora il marciapiede. Tutti i
parcheggi su strada sono stati eliminati; chi ha un’auto (e chi può permettersi
di non averla?) deve cercar posto altrove, e fare centinaia di metri con le
borse della spesa per raggiungere casa. Piazza della Libertà e piazza San Marco
oggi sono veri e propri snodi ferroviari. In viale Don Minzoni ci sono anche dei
respingenti per fine corsa del treno. E qui, per cristiana carità, ci fermiamo
anche noi.
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