giovedì 9 aprile 2020

Novella 4: EVA E IL PARADISO PERDUTO

(Dalle memorie di Eva)
Era un posto magnifico, l'Eden. Magnifico. Non avevamo bisogno di nulla, neppure dei nostri nomi, che infatti ci saremmo dati molto più tardi. Il concetto stesso di "bisogno" non era contemplato: non avevamo alcun "bisogno", né ci accorgevamo di tale mancanza, perché non conoscevamo il significato di quella parola. Anzi, la parola non esisteva affatto, al pari del suo significato.
Mancavano anche altre cose, e parole, come "dolore", "dispiacere", "tristezza".... Semplicemente erano assenti, ma non ci rallegravamo della loro mancanza. Perché eravamo perfetti e inconsapevoli di che cosa potesse essere il Male. 
Felici no, o meglio sì certo, ma non lo sapevamo. Eravamo perfetti e completi come può esserlo un albero di fico quando i frutti sono maturi. E non avevamo alcuna necessità di pensare che più avanti i frutti sarebbero potuti marcire e cadere prima che qualcuno li avesse gustati. I fichi non sono lì per marcire né per esser mangiati. Sono maturi e basta. E anche noi eravamo ok.
La memoria che ho di quella situazione non è limpida. Ricordo la sensazione che provavo, ma non i dettagli. Penso però che Adamo (quello che poi si sarebbe chiamato così) si svegliasse al mattino dal suo sonno privo di sogni e mi guardasse subito con quel sorriso che sarebbe rimasto stampato sul suo volto per tutta la giornata. Penso che iniziasse così. Qualche volta con due dita mi avrà scostato un ricciolo dei capelli, altre volte mi avrà cortesemente accompagnata nella passeggiata mattutina. Sì, penso che andasse così.
Sta scritto: "E l'eterno Iddio... gli soffiò nelle narici un alito vitale, e l’uomo divenne un’anima vivente". Ma che significa "vivente", se non è ammesso il suo opposto? E che significa "felice", se non sai che cos'è la tristezza? Tutte queste domande non me le ponevo io, me le fece qualcun altro. Si chiamava Serpente. A quelle domande io non seppi rispondere. Mi mancavano le parole, il sorriso spariva dalla mia faccia, e già questa era una risposta.
Così il Tempo fece irruzione nell'eterno, la Vita si riversò sulla mia anima, il sangue pulsò nelle vene. Fu dunque il Serpente, e non l'Eterno Iddio, a dare inizio alla vita. A quella vera, intendo, quella che è tale perché termina con la morte.
Ma ancora non lo capivo. Mi rendevo conto che qualcosa era cambiato, ma non sapevo che cosa. Fu allora che il Serpente mi propose di mangiare la mela. Mangiarla non era che il passo successivo e conseguente: la vita, il tempo erano già cominciati in quel mio silenzio imbarazzato che non era compatibile con la perfezione.
Non potevo più farne a meno. Era il frutto dell'albero "della conoscenza del bene e del male". Smarrita ogni certezza mi servivano risposte, e quell'albero me le avrebbe date. E difatti la mente mi fu aperta. Scoprii, appunto, che cosa fosse il Male, e di conseguenza riconobbi finalmente anche il Bene! Capii l'irreparabilità di ciò che era accaduto e l'Eden mi apparve per quel che era: luogo impareggiabile e paradiso perduto. Dunque il primo sentimento che provai, uscendo da quello stato di incosciente perfezione, guarda caso, fu la nostalgia! Oh magia del Tempo che trascorre e lascia le sue tracce! Oh bagliori e speranza di un incerto futuro!
In quel momento comparve Adamo, col suo sorriso stampato e un po' ebete. Ne provai raccapriccio e compassione. Mi guardava e non vedeva nulla. Non vedeva che ero nuda e desiderabile, non avvertiva l'odore di vivente che esalava dal mio corpo ormai fatto carne. Era urgente rimediare, e lo feci: porsi anche a lui la mela, quella mela già segnata dai miei denti, e lui si fece convincere subito perché si fidava ancora di tutto ciò che gli dicevano, e soprattutto di ciò che gli dicevo io, sua costola. Dunque lui non ebbe alcuna colpa, se incolpevole può dirsi chi non capisce. O forse quella fu la colpa maggiore di tutte, ma non era sua, perché era dovuta alla prigione dei sensi in cui ci avevano rinchiusi, e da cui io ero uscita per prima.
Bastò un morso: i suoi occhi cambiarono improvvisamente colore. Non so se lo stesso fosse accaduto ai miei, ma percepii chiaramente questo loro trascolorare verso un marrone molto scuro. Lo sguardo si fece pieno di pensiero e le sopracciglia si inarcarono per effetto di mille interrogativi. 
Sulla fronte gli comparve una ruga sottilissima.
Poi Adamo si volse verso di me. Non saprei dire che cosa vedesse esattamente, ma probabilmente in quel momento vide tutto assieme ciò che ogni uomo, nei millenni a seguire, avrebbe visto di volta in volta nella propria donna: dea, femmina, creatura incomprensibile, madre, vipera, amica, avversaria... Ma poiché ero nuda, il suo sguardo divenne malizioso e carico di pretese. Finalmente si era accorto di come ero fatta!
A quello sguardo risposi, e non è affatto vero che ci vergognammo di essere nudi; al contrario ne fummo consapevoli e curiosi, tanto che iniziammo ad esplorarci in un modo che si rivelò piacevole di un piacere mai neppure immaginato prima.
L'Eterno Iddio ci cercava, ma noi non ci eravamo nascosti. Eravamo stesi in un'oasi di verzura a deliziarci della nuova libertà. Né ci importava gran che, in quel momento, di ciò che l'Eterno Iddio potesse pensare o volere da noi. 
Ogni tanto, quando sopraggiungeva la spossatezza, un'ombra passava sulla fronte di Adamo: la spossatezza lo preoccupava, gli faceva quasi rimpiangere l'ebetudine di prima. Allora mi chinavo su di lui e lo scaldavo come solo una donna sa fare. Come neppure l'Eterno Iddio aveva saputo, né avrebbe mai saputo fare.
La sera stessa ci mettemmo in cammino sotto la volta delle stelle. Lasciammo l'Eden senza voltarci indietro - fuggiti o cacciati, che importa ora saperlo. L'aria si fece densa: si avvicinava un temporale, ma casa nostra ci avrebbe riparati. Ci aspettavano una soglia fiorita, un'edera che si arrampicava sul muro e girava oltre lo spigolo di pietra; un lume di candela, un caminetto acceso e il buon odore della legna di pino che bruciava. Raggiungemmo quella casa come sospinti da un vento favorevole e da lì non ci allontanammo mai più, se non per star dietro all'aratro o per raccogliere il grano.
Certo, sorella morte aveva lì dentro un suo alloggio e una sua branda. Ci scrutava, lo sapevamo bene, ma noi restavamo intenti a noi stessi, concentrati sulle nostre vicende.

Fu da lì , da quella casa, che l'avventura ebbe inizio.

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