Tempo fa il mio amico ed illustre poeta Alfiero Romagnoli aveva incontrato una ragazza e se ne era innamorato perdutamente.
Per conquistarla aveva deciso di scriverle una poesia, anzi la più bella poesia che avesse mai composto.
Alfiero ardeva di passione, e dunque si accinse all'opera con convinzione e allegria.
"Non cadrò nella trappola della insulsa rima cuore-amore!", mi disse per prima cosa. E si ingegnò a cercare il meglio fra consonanze preziose e inaudite.
Trovò interessante abbinare "echi" con "c'è chi...", anche perché adorava gli enjambements.
Gli piacevano molto poi le rime fra parola piana e parola sdrucciola, e si annotò "sembri" con "émbrici" (termine poco usato in poesia e per questo a lui grato).
L'endecasillabo gli parve il metro più consono, e il sonetto la misura più appropriata a una composizione amorosa.
Ridemmo assieme sull'errore tipico degli ignoranti, che considerano endecasillabi tutti i versi di undici sillabe, ignorando le vere norme del ritmo.
Fece accorto uso di metafore, ma le abbellì qua con un chiasmo, altrove di anastrofi e ossimori, con timbri modulari e un generale registro stilistico sofisticato, addolcito da accenti lirici e vibranti.
Quando ebbe concluso, felice del risultato, passò da casa mia a leggermi l'opera. Nel farlo si compiacque di rimarcare le rime più ardite, di cadenzare con perizia i versi, di accentuare le cesure nella dizione. Mi complimentai vivamente con l'amico. Brindammo al successo dell'impresa, dopo di che Alfiero mi lasciò abbracciandomi con affetto.
Lo rividi la sera stessa che sembrava un pugile suonato. In quei giorni, mentre lui era impegnato nella scrittura, la sua amica aveva conosciuto un tecnico delle luci di Cinecittà, "uno di quei lavoranti, capisci? - mi disse affranto - che solo per il fatto di operare nel cinema si vestono di nero e si spacciano per artisti!".
E si era messa con quel bel tomo prima ancora che Alfiero potesse consegnarle il sonetto con il quale, ne era certissimo, lui l'avrebbe fatta sua.
Fu così che quei versi, anziché finire su di un comodino, furono pubblicati in volume assieme ad altri. Il nome di lei era stato tolto, alcuni particolari riaggiustati, ma il sonetto era pur sempre quello.
Fra i lettori, il successo fu subito caloroso. E Alfiero se ne consolò a tal punto che finì per ringraziare il cielo che la storia fosse andata in quel modo: che il suo talento risultasse di beneficio per molti, anziché servire a quella sola, sciocca ed ingrata fanciulla.
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