martedì 14 luglio 2020

Novella 14: DUEMILA


La notte fra il 30 e il 31 dicembre 1999 il Rag. Crivelli sognò per l’ennesima volta, nel dormiveglia, la sua (incompiuta) azione memorabile: prendere il microfono nel bel mezzo di un’assemblea dei soci dell’azienda dove lavorava come ragioniere capo, per dire con ostentata noncuranza quattro paroline destinate a lasciare il segno, e a lanciarlo nell’empireo degli Amministratori. Nel sogno, un angelo stava curiosamente sospeso sulla sua testa e da una sorta di trombone, che il Crivelli non sapeva chiamarsi cornucopia, versava frutti maturi, in una cornice di fertilità ed abbondanza.
Già, ma quali parole? Ecco il punto non chiaro, il fastidioso dettaglio che al mattino impediva al Crivelli di crogiolarsi in quella persistente impressione che a volte lasciano i sogni più intensi.
Emergere, meditava, è diventato difficile! Un tempo bastava non dico una traversata, o quella tale conquista, ma appena appena scrivere cinquanta righe di racconto, per aspirare alla gloria. Oggi invece oceani, mari, canali, laghi e calotte, nonché trame e soggetti, sono stati esplorati e percorsi in lungo e in largo, e le vette sono tutte quante imbandierate; tutte le storie sono state narrate, e i consigli di amministrazione poi...
L’indomani, in ditta, si preparava la grande festa di capodanno: una benemerita iniziativa del dottor Gottardi cui quasi nessuno aveva osato sottrarsi. Mentre il Crivelli, un po’ controvoglia, addobbava la sua stanza e l’attiguo locale archivio, fu avvisato dalla segretaria che il direttore in persona lo richiedeva.
“Lei sa”, esordì il grande capo senza convenevoli, “della nostra intenzione di aprire una filiale in Brasile. Ebbene, lei è il nostro uomo per questa impresa: è con noi da vent’anni; è ancora giovane (il Crivelli si schernì), non è sposato, e abbiamo deciso di scommettere su di lei. Villa, automobile e stipendio triplicato sono la nostra offerta (e le brasiliane? - aggiunse con fare ammiccante). Senza contare il posto in Consiglio di Amministrazione. Cosa ne dice?”
"Sono lusingato... - disse aggrappandosi ai braccioli della sedia - Vuole la risposta subito?” “Diciamo che vorrei iniziare il millennio sapendo le sue decisioni”. 
Il Crivelli ringraziò, ringraziò di nuovo, e promise.
Nel resto del mattino di quel 31 dicembre 1999 le pratiche sulla sua scrivania subirono un certo rallentamento, anche se attribuirne la ragione ad una privata emozione sarebbe stato difficile per chiunque: l’eccitazione infatti era generale, vera o ostentata che fosse, e tutti combinarono ben poco. Fuori, intanto, continue esplosioni davano anticipato annuncio del trapasso millenario.
Più tardi, nel pomeriggio di libertà, il Crivelli era ancora lì che si godeva il suo momento di gloria. Perché lo era, il suo momento! Quello tanto atteso! Decise di rinviare la risposta all’ultimo minuto, facendola precedere dal massimo della suspence.
Arrivò anche la sera: tutti tornarono in ditta per la festa e il Crivelli bevve, mangiò, fece saltare i tappi; invitò perfino la segretaria per un valzer! Mancavano ormai pochi istanti a mezzanotte quando vide di lontano lo sguardo inquisitore del dottor Gottardi. Mentre si faceva largo sorridendo verso di lui, tra colleghi e consorti festanti, il Crivelli provò mille sensazioni, tutte straordinariamente vivide. Rivide come in sogno, sopra e davanti a sé, l’angelo con la sua profferta di frutti.
La musica e le voci crebbero d’intensità: tutto si concentrò su di lui in un’accecante luminaria, in un vortice di sguardi non più distratti ma attenti al suo incedere.
Egli sentì in quell’attimo la vita finalmente per intero nelle proprie mani. L’angelo si protese, mentre il velo del futuro gli si squarciava innanzi con lampante evidenza. Le parole da dire, che nel sogno mancavano, gli si palesarono senza più dubbio alcuno, e lui le pronunciò chiare e forti: 
“Dottor Gottardi, la mia risposta è NO!”

Si fece un silenzio irreale. Poi il Crivelli girò i tacchi ed uscì dalla sala. 

Mentre scendeva le scale, di certo per l'ultima volta, lentamente si slacciò dal collo la cravatta, la tenne appena appena sospesa ed infine la lasciò cadere su un gradino.

domenica 28 giugno 2020

Novella 13: PENA CAPITALE


Tribunale di Brema (Germania)
Sentenza nr. 151.0195.8 del 28 giugno 2020

Gentile Signore,
questo Tribunale riunito in seduta plenaria L'ha ritenuta colpevole dei reati ascrittiLe, e pertanto La condanna alla pena capitale. 
La sentenza verrà eseguita domani in modalità coperta da segreto, come vuole la prassi.
In considerazione della buona condotta tenuta durante il processo e delle attenuanti generiche, Le viene concesso un giorno di libertà condizionale. Di conseguenza, Lei può sin d'ora lasciare il carcere e tornare a casa per trascorrervi il tempo rimanente, pari a circa 22 ore. Domattina, alle sette precise, due gendarmi muniti di ordini scritti verranno a prelevarLa per condurLa al luogo di esecuzione. Voglia cortesemente, per quell'ora, farsi trovare sveglio, in ordine e pronto al trasferimento.

Vivendo solo, mi sono chiesto: chi vorrei avere accanto in queste ore?
Mia madre assolutamente no... è molto anziana, non sa nulla di tutta la vicenda e preferisco che ne rimanga all'oscuro.
Forse mia sorella? Per carità - ha già i suoi bei guai. Ha assistito fra il pubblico a due udienze, ma poi mi ha fatto sapere che non avrebbe più potuto esserci. Magari verrebbe, però non mi va di disturbarla.
Ho un paio di cugini, ma dopo il mio arresto si sono premurati di far sapere a più persone possibile che da tempo avevano chiuso ogni rapporto con me.
C'è la mia ex, naturalmente. In carcere mi è arrivata una sua lettera piuttosto affettuosa - peccato non averle potuto rispondere: l'avvocato mi aveva vietato di scrivere a chicchessia, per non compromettere la strategia di difesa. Fosse almeno servito a qualcosa! In ogni caso no, non mi sembra opportuno: nel frattempo si è rifatta una vita, e tutto il resto.
Amici ne avevo, certo. Ma non ne trovo nemmeno uno adatto: non ho mai veramente scambiato confidenze; né io con loro, né loro con me. Meglio di no.

A forza di lambiccarmi si è fatta ora di cena. Come vola il tempo, quando si ha da pensare!
Ho aperto il frigorifero, ma erano mesi che nessuno lo faceva e un odore acre ha invaso la cucina. Fa questo effetto la carne, quando si decompone. 
Per fortuna non avevo molta fame: forse per il caldo.

Comunque su qualcuno l'odore di carne avariata esercita una certa attrattiva. Difatti alla finestra si è affacciato un gatto.
La vetrata era spalancata per via dell'odore, ma lui ci ha messo un po' prima di decidersi. Sì sa, i gatti ci vanno sempre prudenti.
Era un grosso gatto rispettabile, dal muso corrugato e le orecchie scorticate da chissà quali e quante battaglie. Doveva essere il re del quartiere, almeno per la colonia felina.
Alla fine è entrato con grande circospezione e si è messo ad annusare ogni angolo. L'ho seguito spostarsi senza fare il minimo rumore; l'ho spiato mentre, era evidente, si faceva un'idea sempre più chiara del luogo e della situazione.
Un gatto.
Infine si è seduto (penso si possa dire così quando un gatto mette a terra il didietro, restando con le zampe davanti diritte) ed ha iniziato a guardarmi negli occhi.
Ora io non sono sicuro che con quello sguardo volesse proprio dirmi ciò che ho inteso; però lui continuava a fissarmi con un'aria... un'aria che definirei mista di commiserazione e di simpatia. Ma non solo questo. Anche di vaga presa in giro. 
Più questo grosso gatto mi guardava, e più io mi sentivo a disagio. Anzi, dirò di più: iniziavo a sentirmi un gran minchione!
Ho riconsiderato la mia situazione complessiva, e l'ho trovata insoddisfacente. Per la prima volta mi sono sentito vittima di una sorta di macchinazione.
Ho anche pensato che non tutto era deciso e scolpito nel marmo come sembrava.

Ci ho pensato su ancora a lungo, durante quella notte. 

Alle sette meno un quarto mi sono alzato dalla sedia, ho dato una carezza al gattone, che nel frattempo si era appisolato, ho aperto la porta e me ne sono uscito con calma. Fuori non c'era nessuno: la fuga, da queste parti, non è ritenuta un rischio. Ho girato a sinistra e ho seguito la strada per una lunga tratta; successivamente mi sono fatto guidare dall'istinto.

Adesso sto scrivendo all'ombra di un grande tiglio. Grazie a quel gatto sono sollevato, allegro e senza alcun rimorso per aver contravvenuto alla legge. Non so se mi stanno cercando. Ne dubito, e comunque non sarà facile trovarmi, in questa remota isola felice.

Novella 12: PARLARE STRANO


Fu verso i sei anni che Gennaro smise di parlare. Così, da un giorno all'altro: senza una ragione, non proferì più verbo.
I genitori dapprima ci scherzarono su; poi provarono a risolvere il problema da soli. Visto il totale insuccesso, sempre più preoccupati, portarono il figlio dai migliori medici della città, ma risultò che l'apparato acustico e quello vocale erano in perfetto ordine; allora consultarono un valente psichiatra, il quale certificò che anche quanto a testa Gennaro era perfettamente normale.
Infine, disperati, si misero nelle mani di un noto psicanalista. Questi ebbe Gennaro in cura per oltre un anno. Sedute in perfetto mutismo da cui solo lui, lo psicanalista appunto, diceva di ricavare preziose informazioni, anche se sempre allo stato embrionale e tutte da verificare. Passò poi ad analizzare i genitori. 
Per farla breve, non riuscì a risolvere il problema; però identificò nella madre la colpevole, perché fin dal tempo dell'allattamento...
Così, un'ombra ulteriore si insinuò fra i due coniugi già tanto provati: lei infatti aveva l'impressione che il marito, per quanto cercasse di consolarla, sotto sotto credesse a quella assurda spiegazione.
Finì che la madre, per protesta, smise di parlare anche lei, e in casa si produsse un silenzio irreale, rotto soltanto, ma di rado, dalle imprecazioni del padre quando aveva esaurito la sua dose di santa pazienza. Perfino Bunny, il cagnolino, sembrava che capisse, e si atteneva a un prudente riserbo. Tranne quando passava il camion della raccolta rifiuti: allora non sapeva resistere, e abbaiava furiosamente finché quello non era scomparso dietro la curva della strada.
Passarono i mesi, e poi passarono gli anni. La madre aveva ripreso a parlare di fronte a un tubino di Armani, adocchiato nella vetrina di un negozio. Quanto a Gennaro, invece, il padre aveva convinto gli insegnanti a interrogarlo solo per iscritto. Da parte loro, quelli erano stati ben lieti di accettare, visto che Gennaro era di gran lunga il meno guastafeste di tutti i compagni.
Studiava con un certo profitto: eccelleva nelle materie umanistiche, e il liceo classico fu la scelta più naturale quando si trattò di trovare una superiore adatta a lui. Ma quanto a parlare, nulla di nulla.
Pian piano i genitori si abituarono, o meglio si rassegnarono a quella stranezza. Di amici Gennaro non ne aveva molti, ma quelli che aveva parlavano parecchio loro, e si contentavano di vederlo annuire, o al contrario esprimere dinieghi.

Finché un giorno, anzi proprio il giorno che Gennaro compiva 16 anni, il vecchio Bunny gli si accostò mugolando, e Gennaro rispose.
Rispose con voce ferma e chiara.
Ma rispose così:

Del tuo giorno, Bunny,
s'appresta l'occaso.
Di gioie e d'affanni
in cerca col naso
non correrai più. 

Figuriamoci i genitori! Si precipitarono da lui e gli si rivolsero con voci trèpide, chiedendogli questo e quello. Anche il cagnolino faceva festa, pur senza capire che cosa gli fosse stato detto di tanto importante. 
Il fatto è che neppure i genitori avevano ben capito che cosa avesse detto esattamente.
Ma non importava! Gennaro aveva parlato!
E lui riprese, rivolto a loro stavolta:

È salda la voce 
ma incerto il mio cuore.
Un vincolo atroce,
un vivo dolore
opprime il mio petto,
conturba il mio detto!

"Ma..."
"Embè? Parla in versi - tagliò corto il padre - E' strano sì, ma gli passerà". 
Non sarebbe andata proprio così.

venerdì 22 maggio 2020

Novella 11: 2B


"Psss. pssss...." bisbigliava una voce da dentro una buca. "pssssss"!!!
Una luce accecante proveniva da un faro situato proprio davanti a me. Non ci capivo niente: non sapevo che posto fosse quello, né come diavolo ci fossi capitato.

Alzai gli occhi e rimasi di stucco: dietro la voce, laggiù sullo sfondo, c'era una gran folla compostamente seduta nella penombra. Guardavano tutti me: evidentemente si aspettavano qualcosa!

"Psssss, psssssss....." insisteva l'omino dalla sua buca, ormai disperato.
Rimandai a più tardi tutti gli interrogativi: bisognava rispondere a tono altrimenti, è chiaro,  sarebbe stato uno scandalo!

"pssssss......." ripeté l'omino un'ultima volta. 

Era la mia battuta, e alla fine la dissi, pur con voce incerta e poco espressiva. Il pubblico fu percorso da un fremito di approvazione ed io capii che, per quanto del tutto involontariamente,  ero risultato profondo e commovente: 

"Essere, o non essere?"


lunedì 11 maggio 2020

Novella 10: DOGANA


Raggiunsi la frontiera a bordo della mia Audi nuova fiammante. Gli agenti doganali furono cortesi, anche se vollero controllare il portabagagli. Poi mi fu dato il via libera solo con un’alzata di sguardo.
Guidai lentamente oltre gli uffici di confine, finché la strada riprese diritta e larga come era stata prima. Allora premetti nuovamente sull’acceleratore, assaporando la sensazione di sicurezza che mi si trasmetteva dai pedali e dalla presa sul volante.
Fu dopo circa dieci chilometri che notai, sulla destra, a lato della carreggiata, una grossa voragine di forma tondeggiante, tanto vicina da apparire quasi pericolosa per la circolazione. Strano che non sia segnalata, pensai: qui sono sempre così scrupolosi! Proseguendo ne vidi altre, più piccole e non così a ridosso. Che stiano facendo una piantumazione di alberi di alto fusto?
Si fece buio in fretta, cosa normale vista la stagione. La strada era adesso completamente deserta, e i miei fari erano gli unici a solcare la notte. Poco dopo, però, iniziarono a vedersi altre luci; fuori del tracciato, per lo più oblique rispetto al senso di marcia. Erano quasi tutte ferme, e nei coni di visuale che esse creavano si vedeva ben poco, appena qualche arbusto. Trattori impegnati in lavori notturni, pensai. Brutto segno per il tempo: vuol dire che è prevista pioggia domani, e i contadini vogliono terminare l’aratura. La cosa mi dette un lieve fastidio, subito sopito dall’ottima musica che proveniva da un CD in movimento nel baule posteriore.
Ancora qualche chilometro e incontrai un posto di blocco. Si vedevano i fari rivolti verso di me, i cartelli di alt sistemati sull’asfalto, e le sagome degli agenti con le armi in pugno o a tracolla. Quando mi fermai, uno di loro si avvicinò con una mitraglietta al braccio. Aveva una faccia inespressiva. Mi chiese i documenti, parola che capii perché è un po’ uguale in tutte le lingue; ma il resto non lo afferrai. Aveva usato di sicuro un dialetto locale, non avendo notato nel buio la targa straniera.
Visti i documenti miei e della macchina, mi chiese ancora qualcosa di incomprensibile. Allargai le braccia, chiedendomi cos’altro servisse. Forse la carta verde? Glie la mostrai fra le cose che aveva già in mano, ma la cosa non gli andò a genio. Chiamò un collega, anche lui armato, col quale confabulò brevemente. Poi quest’ultimo si rivolse a me storpiando la mia lingua. Voleva il lasciapassare! Che lasciapassare? gli chiesi. Non rispose, ma intanto fu chiamato ancora qualcuno, che si rivelò un superiore, con le stellette sulla tuta mimetica. Ricontrollò anche lui tutto quanto, poi mi chiese di scendere dalla macchina.
Obbedii controvoglia. Proprio mentre stavamo camminando verso una baracchetta che era il quartier generale del posto, si sentì una sirena di allarme, e un forte rumore di motori in arrivo. Tutti urlavano e correvano. Anche quelli che erano con me gridavano, e corsero verso il bordo della strada.
Capii improvvisamente che si trattava di aerei: i coni di luce si avvicinavano dall’alto illuminando la scena. Poi iniziarono i colpi di mitragliatrice, bombe, e la risposta con mitra e fucili di chi stava a terra. Ero il più esposto di tutti, perché per la sorpresa ero rimasto in mezzo alla strada. Fu una carneficina: Quando tutto fu finito si sentirono i rantoli dei feriti, le imprecazioni, i richiami dei sopravvissuti, e mi resi conto di quanto fossi stato fortunato a cavarmela senza neppure un graffio.
Si udirono anche ordini secchi, grida concitate, rumore di scarponi sul selciato stravolto. Adesso era buio completo, perché i fari erano stati spenti in fretta e furia all’inizio dell’attacco. Nella confusione, istintivamente mi diressi alla mia macchina. Anch’essa era intatta. Nessuno badava più a me.
Mi misi alla guida, accesi e partii, prima con cautela, poi più rapidamente. Sentii confusamente le grida di chi era più vicino, il rumore di motori rimessi in marcia, una sventagliata di mitra che fortunatamente non colse nel segno. Ormai ero lontano, e evidentemente nessuno ritenne opportuno inseguirmi.
Ma dove ero capitato?

Novella 9: DIGIUNO UNIVERSALE


Tutto iniziò verso il 2035. Allora avevo appena sessant'anni; oggi ne ho centodieci, e ultimamente la memoria mi gioca brutti tiri; però quel tempo lo ricordo ancora alla perfezione.
Ho usato il termine "iniziare", ma avrei dovuto dire "terminò": sì, perché giusto cinquant'anni fa nel mondo si smise di scrivere.
Fu un processo relativamente breve: per prima scomparve la poesia, uccisa dal disinteresse del pubblico; poi scarseggiarono i romanzi e i racconti, fino a sparire completamente. Rimasero i trattati storici e scientifici: di medicina, di astronomia e di tutte le scienze, anche se presero via via una piega sempre meno teorica e più applicativa.
Ormai, a cinquant'anni di distanza, si è perso perfino il ricordo di che cosa fosse una storia narrata. Nessuno ne sente più il bisogno, e credo che siamo rimasti soltanto noi vecchi, e pochi perfino fra di noi, a coltivare la nostalgia dei capolavori del passato. 
Ho in casa una parete attrezzata a libreria e ogni giorno spolvero i vecchi libri che la popolano: il dottor Zivago, la Divina Commedia, i Miserabili, .....
Una volta usavo anche il libro elettronico... com'è che si chiamava? No, non mi viene; ma poi sono cambiati i protocolli, i formati, non so bene che cosa, e i testi sono diventati illeggibili. L'apparecchio del resto non si accende, né si ricarica più. 
I libri di carta invece sono ancora lì e mi piace sfogliarli, sottolineare le frasi più profonde, coltivarne l'uso segreto in un mondo che non sospetta la mia grande passione.
Più volte negli ultimi anni mi sono domandato la causa di tutto questo. E più volte mi ha tormentato il dubbio che qualcosa si potesse fare per non dimenticare, per coltivare la capacità di esprimersi e di raccontare; ma i processi così rapidi e su così vasta scala hanno ragioni profonde che non possono essere contrastate con la buona volontà, con lo stimolo alle coscienze, o peggio con la costrizione scolastica. Bisogna rassegnarsi: l'umanità ha cambiato passo, come tante altre volte è accaduto nella storia; ed ogni volta ci sono state vittime, rimpianti, vani tentativi di tornare indietro. E non è detto che quei tentativi fossero tutti meritevoli: io stesso mi domando se non abbiano ragione tutti gli altri ed io sia diventato soltanto un vecchio brontolone, come sono quei pensionati che non capiscono più gli altri e accusano gli altri di non capirli.
Certo non si può escludere che sacche di narrativa o di poesia sopravvivano in remote contrade del mondo; ma si tratta di sfridi destinati ad essiccarsi via via che la civiltà si espande in nuove aree e impone le sue norme.

Qualche tempo fa, un giorno ho notato che la posizione dei testi in libreria non era la stessa di prima. Ho pensato di aver fatto confusione, e ho rimesso tutto a posto nell'ordine maniacale che desidero. Ma anche il giorno dopo, e quello dopo ancora, qualcuno aveva toccato e spostato alcuni dei libri.
Mi sono messo a spiare la domestica, alla quale avevo intimato di non avvicinarsi neppure a quella parete perché provvedo personalmente alla sua pulizia; ma niente, lei non ha fatto proprio nulla. Eppure l'indomani i libri erano di nuovo in disordine.
E così è ancora oggi: ogni mattina trovo libri fuori posto! 
"Qualcuno dei miei ha deciso di farmi perdere la ragione!" penso turbato. Non sono ancora decrepito, e ho ancora la speranza di campare qualche anno; però magari il mio genero scalpita, e mi si è messo contro? Ma no, non voglio abbandonarmi alla mania di persecuzione, e poi sospetti tanto ignobili mi ripugnano!
Ma allora? I movimenti continuano, non in modo sistematico o seguendo un disegno, ma in modo apparentemente casuale: un giorno trovo i Buddenbrock fra i libri di Rilke, un altro il Don Quijote a fianco dei Promessi Sposi.... Non me ne capacito. Veglio di notte finché posso, ma non riesco a cogliere il responsabile sul fatto. Ultimamente è diventata una vera ossessione e temo di impazzire davvero!

Oggi compio centoundici anni, e mi sono svegliato più tardi del solito. La luce si insinua nelle fessure della persiana chiusa e certamente là fuori un sole tiepido annuncia non so che anticipo di primavera. La mia tensione si è allentata, sento che qualcosa sta per accadere. Lo avverto distintamente, ma non so altro. Fra poco irromperanno i parenti più stretti per gli auguri di prammatica. È consolante, ma non è questo che serve, non è questo!

Sul tavolo c'e una busta piuttosto voluminosa: un regalo del mio nipotino sedicenne per il suo bisnonno. 
Inforco gli occhiali e apro. C'è un fascicolo scritto con mano ancora infantile ed incerta.

Inizia così: "C'era una volta..."

sabato 9 maggio 2020

Novella 8: CUNTO DE LI CUNTI


E' tardi ormai. Lo scrittore alza la testa dalle bozze del suo ultimo romanzo e fissa la luna al di là del vetro. Poi estrae un taccuino e annota: 
In un villaggio della Siberia la luna improvvisamente cambia colore e diventa rosso sangue. La gente si affaccia alle finestre e scruta il cielo sgomenta. Sarà un annuncio di disgrazia? Le opinioni divergono, ma l'allarmismo ha la prevalenza. Si forma un lungo corteo e tutti gli abitanti in processione arrivano davanti alla chiesa. Le "cipolle" del tetto sembrano toccare l'astro, che intanto è diventato del colore delle barbabietole....
Dalla porta si affaccia sua moglie. "Un po' di caffè caldo?"
"Volentieri cara, ma solo se ce l'hai pronto, non stare a prepararne uno solo per me".
Lo scrittore volta pagina al taccuino e, senza preoccuparsi di finire la trama precedente, scrive: 
Il caffè è amaro, ma quella volta lo era più del solito. Certo, perché gli era stato aggiunto un veleno potentissimo. L'assassino era di nuovo al lavoro e stavolta aveva usato un semplice caffè".
Ormai il romanzo sul tavolo è dimenticato. Non è proprio possibile pensarci, perché altre idee gli balenano in testa, e sarebbe un peccato lasciarle andare nel dimenticatoio.
In pochi minuti altri tre fogli del taccuino vengono riempiti di appunti buoni per essere riletti e amplificati in trame compiute.
Entra la moglie col caffè. "Che cosa scrivi tesoro? Fa' vedere" E dà un'occhiata agli scarabocchi sul taccuino.
"Che idee carine, fai bene ad appuntarle: valgono oro!" 
"Ma mi distraggono un po', sai? Ad esempio adesso non ho più voglia di completare il romanzo. Ma l'ho già venduto... devo acchiappare al volo le nuove trame e..."
"Quello lo devi finire! Facciamo così: ogni sera mi dai il taccuino e io lo ricopio in bella forma, così non ti devi preoccupare delle idee nuove e intanto completi le bozze. ok?"
"Mah credo di sì, possiamo iniziare anche stasera se vuoi". E allunga il taccuino alla moglie, che lo maneggia con cura perché ha un valore difficile da calcolare, ma certamente cospicuo.
Però l'esperimento non va benissimo: verso mezzanotte lei è ancora lì al computer, si cava la vista a cercar di capire la disordinata calligrafia del marito. In cuor suo già si pente di aver promesso; ma poi pensa alla macchina da guerra che sta profilandosi, e questo pensiero la incoraggia a proseguire: suo marito è un genio della scrittura, le case editrici se lo contendono a suon di quattrini, e se lei gli darà una mano sarà una pacchia! Al momento, solo un lavoro di copia; ma dopo potrebbe scrivere anche lei, o no? In fondo, è laureata in lettere, e con la penna (quando si usava ancora) non se la cavava poi tanto male. Potrebbe scrivere lei la prima stesura, e poi il marito dare le pennellate finali, ma soprattutto mettere la firma in calce!
Sta ancora rimuginando quando la porta si spalanca. Lo scrittore è lì in pigiama, gli occhi socchiusi dal sonno. "Scusami, mi è venuta in mente un'altra idea..." "Ma certo amore mio, eccoti il taccuino!". E lui annota diligente: 
C'è sciopero alla ditta xxx; per protesta gli operai decidono di fare una marcia dal paese fino a Roma per andare davanti al Ministero. Partono pieni di buone intenzioni, ma la strada è lunga e le intenzioni si perdono un po'. C'è da percorrere uno svincolo, è lunghissimo. "Perché non ci caliamo lungo il pilone?" propone uno. Detto fatto, si spenzolano dal guard-rail sotto lo sguardo di compatimento degli automobilisti, e iniziano una comica discesa del pilone. Più avanti incontrano una prostituta. C'è chi intavola una conversazione, chi fa battute sconce, chi tira fuori il borsellino ma non ha i soldi... Finalmente riprendono il cammino, ma fa caldo! (ecc. ecc.) Una storia tragicomica che deve simboleggiare la crisi ......".
La moglie gongola: anche questa trama è promettente! Finisce di copiare il taccuino sul computer, ma al momento di salvare fa un errore irreparabile e cancella tutto quanto. Le scappa un'imprecazione, al che il marito si affaccia di nuovo. "Non ti preoccupare tesoro, sono cose che capitano! No macché, ero sveglio: è che mi sono venute in mente altre due trame e stavo pensando..." prende il taccuino, ma le idee sono già svanite, non c'è più nulla da fare! 
Allora prende il taccuino e se lo porta in camera. Lì sul comodino sarà più a portata di mano, e se verranno altri spunti sarà più facile segnarli.
Ma è troppo tardi per prendere sonno. Meglio alzarsi, anche se non è ancora l'alba. Una capatina in bagno, e mentre è lì seduto.... eccoti un'altra bella idea! Ma il taccuino dov'è? E' sul comodino, maledizione! E se torno di là lei si sveglia... Va bene, cerco di ricordarmi, scriverò poi. Però, carina anche questa:
Un tizio è seduto sul water, quando la moglie...." 
Ma oggi non è giornata: suona il campanello. Chi sarà mai, a quest'ora? Può essere materia da romanzo, o almeno da novella? Andiamo a vedere chi è.
Intanto l'idea di prima, chi se la ricorda più? Eppure mi ero sforzato... Aveva forse a che fare col bagno? Con la prostata? macché dai...
Arriva anche la moglie: "Hanno suonato!" "Tesoro, perché credi che io sia qui? E' perché hanno suonato!" "Ma eri già in piedi, però... Non dovresti: domattina hai da lavorare, e devi riposarti!"
Finisce che alla porta non c'è proprio nessuno. Non che abbiano aperto, ci mancherebbe, a quell'ora; ma dallo spioncino non si inquadrava nessuno, e hanno concluso che qualche ragazzaccio, di ritorno dalla discoteca, ha fatto uno scherzo di cattivo gusto. E difatti la mattina sulla porta di casa c'è una bella pisciata, segno che il ragazzo deve aver bevuto anche tanta birra, prima di fare il suo scherzo.
Però quest'ultima considerazione non l'ha fatta il nostro Scrittore: poco dopo aver sbirciato nello spioncino e averne tratto le logiche conseguenze che si dicevano, improvvisamente si è accasciato a terra, vittima di un colpo secco. La pisciata la commentano senza riguardo i portantini che lo caricano sull'ambulanza e lo portano in ospedale.
All'ospedale il bravo Scrittore ci rimane parecchio: sono già più di due mesi, durante i quali si è tentato di tutto, compresa una fisioterapia da cavalli; ma niente, lui è rimasto completamente paralizzato. Tranne una palpebra, con la quale piano piano impara a comunicare i propri bisogni elementari: fame, sete, caldo, freddo, e così via. Ma nient'altro!
Nel suo cervello le trame di racconti continuano a baluginare una dopo l'altra, ma non c'è più modo di trascriverle. La moglie lo ha abbandonato, né si può biasimarla troppo. Le trame di racconti si profilano, prendono forma nella sua immaginazione, lo scaldano di un calore ingannevole e provvisorio, e poi svaniscono in quel nulla disperato che è la sua malattia.

giovedì 30 aprile 2020

Novella 7: FARE SENZA


"Come sarebbe figliolo?" La voce del povero parroco era accorata.
"Padre, rispose il Moretti, mi spiace per lei che mi conosce da quando ero bambino, ma è tutto molto chiaro: la realtà va interpretata soltanto mediante la scienza. Le  spiegazioni razionali sono le uniche ad avere un valore. Tutto il resto è vano, illusorio, o come diceva qualcuno "oppio dei popoli"!
"Anche la fede?" fece l'anziano priore.
"Ah la fede..." il Moretti alzò gli occhi al cielo. "A lei interessa parecchio, immagino".
"Buon Dio sì, ragazzo mio! Ma non solo quella: come li spieghiamo i sentimenti, la commozione, i sogni, le speranze...?"
"Con la chimica e la fisiologia, padre. Uno mangia troppo la sera, e la notte sogna di volare; un altro prende una botta in testa e dimentica perfino come si chiama...: azione e reazione, padre, o se preferisce tesi, antitesi e sintesi!
"Non dire così figliolo...!" scosse la testa il parroco.
"Ma così stanno le cose: nulla esiste al di fuori delle teorie scientifiche!"

Così dicendo il Moretti si era alzato dal confessionale, aveva salutato ed era uscito dalla chiesa, lasciando il vecchio parroco affranto nel suo stallo.
Là fuori c'era un bel tramonto, ma il Moretti non lo guardò: salì in macchina e partì in fretta e furia, perché aveva un appuntamento.
La radio non trasmetteva musica.
Passò un attimo al bar, ma gli amici si erano già dileguati. Il cagnolino del barista, al quale usava passare un bocconcino ogni mattina,  gli ringhiò contro, lasciandolo un po' interdetto. 
Tornò subito in macchina e si rimise alla guida. Adesso il notiziario riferiva di non si sa quale guerra lontana. Il Moretti cercò un altro canale, ma doveva essere una guerra importante perché su tutte le lunghezze d'onda non si parlava d'altro. Che noia!
La sua meta era un certo alberghetto di periferia.
"Sei in ritardo", l'apostrofò lei. "Figurati, mi sono messo a discutere con don Vincenzo, e mi è passata l'ora".
"Attento, non ti sedere lì che mi sgualcisci la gonna!"
"Vieni a letto, dai!" 
"Mi rovini la pettinatura!". 
Quella volta l'amore fu come masticare sapone. 
Rivestitosi dopo la doccia, avrebbe voluto parlare un po', ma lei già guadagnava la porta: "Devo vedere il commercialista".
Poco dopo il Moretti richiuse e scese le scale. Alla reception non c'era nessuno, così se ne andò senza pagare. Tanto avrebbero segnato sul conto. 
Mentre guidava osservò che, come sempre accade, la luce dei fari delle altre macchine, abbagliandolo, gli impediva di scorgere chi fosse all'interno.
Quando arrivò a casa era buio pesto. Armeggiò con le chiavi finché riuscì ad aprire e varcò la soglia cercando l'interruttore col dorso della mano.
Quando la luce si accese fu preso da sgomento: era tutto vuoto! Non un mobile, nessun quadro, niente di niente...
Allora si attaccò al cellulare, ma le uniche risposte furono voci automatiche di segreterie telefoniche.

Bisognava rifarsi dall'inizio!

Così il Moretti riprese la via della chiesa. 
Era ormai notte fonda. Bussò al portone, ma nessuno apriva. Riprovò, e niente.
Si mise a tempestare il portone con i pugni e finalmente, quando stava per rinunciare, quello si aprì di un tanto e una figura minuta, mai vista prima, si sporse fuori.
"Che cosa desidera signore?" fece con un vocino appena distinguibile.
 "Cerco il parroco, potrebbe avvisarlo che sono tornato?"
"E' troppo tardi, signore."
"Certo lo so che è tardi, però vede... avrei davvero urgenza..."
"No no, signore, è troppo tardi! Don Vincenzo ha avuto... il cuore... Sono appena andati via tutti: ambulanza, medico, infermieri. Adesso è nel suo letto. Riposa, ma con due ceri accesi di fronte, e proprio non si può disturbare..."
"Ma come... - il Moretti era sbalordito - solo tre ore fa stava benissimo! Non posso crederci... e povero me, che avevo proprio bisogno di parlargli".
"Purtroppo..."
"Ma potrei almeno vederlo?"
"Certo, entri pure, signore!"

La salma era stata composta alla meglio, le candele accese mandavano un odore mieloso.
Il Moretti osservò attentamente quel volto. L'inarcamento delle sopracciglia era innaturale, qualcosa di davvero notevole: un moto di sorpresa? Un messaggio solo per lui? Un rimprovero forse? Possibile che la conversazione di prima...? 

In quel momento la campana del vecchio campanile si mise a battere i suoi lenti rintocchi. Suonava a morto: don... don... don... Sul volto impreparato del Moretti si sparse un fiotto di lacrime. E non voleva smettere!
La figurina che lo aveva accolto sulla porta ricomparve e gli cinse le spalle. Lui lasciò fare.
Poi al Moretti sembrò, ma chissà se era vero, che un coro lontano cantasse una canzone.


giovedì 23 aprile 2020

Novella 6: RITENTA!


C'era una volta un uomo, già avanti con gli anni, che si riteneva buono e giusto. Un giorno entrò in chiesa e si rivolse a Dio:
"Poiché sono l'uomo più buono, più giusto e più pio di tutta la città, credo di meritarmi una ricompensa!"
Dio, che essendo Dio aveva previsto quella visita ed era già in attesa dietro l'altare, apparve in forma di nuvola. Da quella nuvola uscì una voce:
"Hai ragione, figlio mio, e poi oggi sono di buonumore: chiedimi quello che vuoi, e te lo darò."
L'uomo, che da tempo  si preparava a quel momento, rispose senza esitazione:
"Dio che puoi tutto, fammi tornare giovane!"
"D'accordo, figliuolo: possiamo farlo e lo faremo. Ma... per capire meglio, vuoi rivivere la stessa vita che hai fatto, oppure una nuova?"
L'uomo ripensò alla vita vissuta fino a quel giorno e non la trovò gran che. Anzi, a ben ricordare, c'erano alcuni episodi che per carità, niente di terribile, ma a ripensarci sarebbe stato meglio.... E poi, signori miei, perché non riprovarci da capo? Magari andrà un po' meglio, no? E ciò disse al Signore Iddio.
"D'accordo figlio mio. Ora un'ultima cosa: nella tua nuova vita vuoi ricordarti o no di quella precedente?" 
L'uomo pensò che sarebbe stato molto comodo trovarsi sì giovane, ma con l'esperienza della piena maturità. Riferì a Dio questa scelta. La nuvola ebbe un fremito.
"Tutto mi è possibile, e anche questo naturalmente!
Ah quasi dimenticavo: come tutte le cose, anche i miracoli hanno un costo: un nuovo inizio chiama la sua fine... "
"Che significa?"
"Significa che dovrai conoscere la tua fine".
Turbato, l'uomo rifletté a fondo, ma la tentazione era così forte che si decise:
"Morire, dobbiamo morire comunque. Per cui non cambio idea. Tantopiù che alla morte poi non ci ripenserò per un pezzo."
"Bene figliolo, accomodati allora. Ti farò vedere."
"Ma come... subito?" Controvoglia l'uomo prese posto su una panca. 

Nella chiesa, a quell'ora, non c'era più nessuno. Solo un barbone, non visto, era accucciato in un canto e guardava la scena senza alcuna meraviglia, perché tutto già aveva conosciuto e provato nella sua vita di stenti. Ma la faccia di quell'uomo, alle prese col suo destino, non l'avrebbe mai più dimenticata. Era una faccia segnata dal raccapriccio! 
E difatti quell'uomo alzò lo sguardo verso la nuvola: "È troppo, Signore. Non posso sopportarlo". 
"Lo immaginavo, ma ho voluto che te ne rendessi conto da solo. Annulliamo tutto, dunque?" 
"Annulliamo!" si affrettò a rispondere l'uomo, ancora scosso dai brividi.
"Sta bene dunque. Addio!" E la nuvola iniziò a evaporare. Ma l'uomo chiamò di nuovo:
"Un momento Signore!"
"Che c'e ancora?"
"Avendo rinunciato, dimmi che non morirò nel modo che ho visto!"
La risposta di Dio fu lunga e argomentata ma, per quanto l'uomo aguzzasse l'udito, gli arrivò confusa e incomprensibile, mentre la nuvola finiva di dissolversi.

giovedì 16 aprile 2020

NOVELLA 5: IL SONETTO AMOROSO


Tempo fa il mio amico ed illustre poeta Alfiero Romagnoli aveva incontrato una ragazza e se ne era innamorato perdutamente. 
Per conquistarla aveva deciso di scriverle una poesia, anzi la più bella poesia che avesse mai composto.
Alfiero ardeva di passione, e dunque si accinse all'opera con convinzione e allegria.
"Non cadrò nella trappola della insulsa rima cuore-amore!", mi disse per prima cosa. E si ingegnò a cercare il meglio fra consonanze preziose e inaudite.
Trovò interessante abbinare "echi" con "c'è chi...", anche perché adorava gli enjambements.
Gli piacevano molto poi le rime fra parola piana e parola sdrucciola, e si annotò "sembri" con "émbrici" (termine poco usato in poesia e per questo a lui grato).
L'endecasillabo gli parve il metro più consono, e il sonetto la misura più appropriata a una composizione amorosa. 
Ridemmo assieme sull'errore tipico degli ignoranti, che considerano endecasillabi tutti i versi di undici sillabe, ignorando le vere norme del ritmo.
Fece accorto uso di metafore, ma le abbellì qua con un chiasmo, altrove di anastrofi e ossimori, con timbri modulari e un generale registro stilistico sofisticato, addolcito da accenti lirici e vibranti.
Quando ebbe concluso, felice del risultato, passò da casa mia a leggermi l'opera. Nel farlo si compiacque di rimarcare le rime più ardite, di cadenzare con perizia i versi, di accentuare le cesure nella dizione. Mi complimentai vivamente con l'amico. Brindammo al successo dell'impresa, dopo di che Alfiero mi lasciò abbracciandomi con affetto.

Lo rividi la sera stessa che sembrava un pugile suonato. In quei giorni, mentre lui era impegnato nella scrittura, la sua amica aveva conosciuto un tecnico delle luci di Cinecittà,  "uno di quei lavoranti, capisci? - mi disse affranto - che solo per il fatto di operare nel cinema si vestono di nero e si spacciano per artisti!". 
E si era messa con quel bel tomo prima ancora che Alfiero potesse consegnarle il sonetto con il quale, ne era certissimo, lui l'avrebbe fatta sua.
Fu così che quei versi, anziché finire su di un comodino, furono pubblicati in volume assieme ad altri. Il nome di lei era stato tolto, alcuni particolari riaggiustati, ma il sonetto era pur sempre quello.
Fra i lettori, il successo fu subito caloroso. E Alfiero se ne consolò a tal punto che finì per ringraziare il cielo che la storia fosse andata in quel modo: che il suo talento risultasse di beneficio per molti, anziché servire a quella sola, sciocca ed ingrata fanciulla.

giovedì 9 aprile 2020

Novella 4: EVA E IL PARADISO PERDUTO

(Dalle memorie di Eva)
Era un posto magnifico, l'Eden. Magnifico. Non avevamo bisogno di nulla, neppure dei nostri nomi, che infatti ci saremmo dati molto più tardi. Il concetto stesso di "bisogno" non era contemplato: non avevamo alcun "bisogno", né ci accorgevamo di tale mancanza, perché non conoscevamo il significato di quella parola. Anzi, la parola non esisteva affatto, al pari del suo significato.
Mancavano anche altre cose, e parole, come "dolore", "dispiacere", "tristezza".... Semplicemente erano assenti, ma non ci rallegravamo della loro mancanza. Perché eravamo perfetti e inconsapevoli di che cosa potesse essere il Male. 
Felici no, o meglio sì certo, ma non lo sapevamo. Eravamo perfetti e completi come può esserlo un albero di fico quando i frutti sono maturi. E non avevamo alcuna necessità di pensare che più avanti i frutti sarebbero potuti marcire e cadere prima che qualcuno li avesse gustati. I fichi non sono lì per marcire né per esser mangiati. Sono maturi e basta. E anche noi eravamo ok.
La memoria che ho di quella situazione non è limpida. Ricordo la sensazione che provavo, ma non i dettagli. Penso però che Adamo (quello che poi si sarebbe chiamato così) si svegliasse al mattino dal suo sonno privo di sogni e mi guardasse subito con quel sorriso che sarebbe rimasto stampato sul suo volto per tutta la giornata. Penso che iniziasse così. Qualche volta con due dita mi avrà scostato un ricciolo dei capelli, altre volte mi avrà cortesemente accompagnata nella passeggiata mattutina. Sì, penso che andasse così.
Sta scritto: "E l'eterno Iddio... gli soffiò nelle narici un alito vitale, e l’uomo divenne un’anima vivente". Ma che significa "vivente", se non è ammesso il suo opposto? E che significa "felice", se non sai che cos'è la tristezza? Tutte queste domande non me le ponevo io, me le fece qualcun altro. Si chiamava Serpente. A quelle domande io non seppi rispondere. Mi mancavano le parole, il sorriso spariva dalla mia faccia, e già questa era una risposta.
Così il Tempo fece irruzione nell'eterno, la Vita si riversò sulla mia anima, il sangue pulsò nelle vene. Fu dunque il Serpente, e non l'Eterno Iddio, a dare inizio alla vita. A quella vera, intendo, quella che è tale perché termina con la morte.
Ma ancora non lo capivo. Mi rendevo conto che qualcosa era cambiato, ma non sapevo che cosa. Fu allora che il Serpente mi propose di mangiare la mela. Mangiarla non era che il passo successivo e conseguente: la vita, il tempo erano già cominciati in quel mio silenzio imbarazzato che non era compatibile con la perfezione.
Non potevo più farne a meno. Era il frutto dell'albero "della conoscenza del bene e del male". Smarrita ogni certezza mi servivano risposte, e quell'albero me le avrebbe date. E difatti la mente mi fu aperta. Scoprii, appunto, che cosa fosse il Male, e di conseguenza riconobbi finalmente anche il Bene! Capii l'irreparabilità di ciò che era accaduto e l'Eden mi apparve per quel che era: luogo impareggiabile e paradiso perduto. Dunque il primo sentimento che provai, uscendo da quello stato di incosciente perfezione, guarda caso, fu la nostalgia! Oh magia del Tempo che trascorre e lascia le sue tracce! Oh bagliori e speranza di un incerto futuro!
In quel momento comparve Adamo, col suo sorriso stampato e un po' ebete. Ne provai raccapriccio e compassione. Mi guardava e non vedeva nulla. Non vedeva che ero nuda e desiderabile, non avvertiva l'odore di vivente che esalava dal mio corpo ormai fatto carne. Era urgente rimediare, e lo feci: porsi anche a lui la mela, quella mela già segnata dai miei denti, e lui si fece convincere subito perché si fidava ancora di tutto ciò che gli dicevano, e soprattutto di ciò che gli dicevo io, sua costola. Dunque lui non ebbe alcuna colpa, se incolpevole può dirsi chi non capisce. O forse quella fu la colpa maggiore di tutte, ma non era sua, perché era dovuta alla prigione dei sensi in cui ci avevano rinchiusi, e da cui io ero uscita per prima.
Bastò un morso: i suoi occhi cambiarono improvvisamente colore. Non so se lo stesso fosse accaduto ai miei, ma percepii chiaramente questo loro trascolorare verso un marrone molto scuro. Lo sguardo si fece pieno di pensiero e le sopracciglia si inarcarono per effetto di mille interrogativi. 
Sulla fronte gli comparve una ruga sottilissima.
Poi Adamo si volse verso di me. Non saprei dire che cosa vedesse esattamente, ma probabilmente in quel momento vide tutto assieme ciò che ogni uomo, nei millenni a seguire, avrebbe visto di volta in volta nella propria donna: dea, femmina, creatura incomprensibile, madre, vipera, amica, avversaria... Ma poiché ero nuda, il suo sguardo divenne malizioso e carico di pretese. Finalmente si era accorto di come ero fatta!
A quello sguardo risposi, e non è affatto vero che ci vergognammo di essere nudi; al contrario ne fummo consapevoli e curiosi, tanto che iniziammo ad esplorarci in un modo che si rivelò piacevole di un piacere mai neppure immaginato prima.
L'Eterno Iddio ci cercava, ma noi non ci eravamo nascosti. Eravamo stesi in un'oasi di verzura a deliziarci della nuova libertà. Né ci importava gran che, in quel momento, di ciò che l'Eterno Iddio potesse pensare o volere da noi. 
Ogni tanto, quando sopraggiungeva la spossatezza, un'ombra passava sulla fronte di Adamo: la spossatezza lo preoccupava, gli faceva quasi rimpiangere l'ebetudine di prima. Allora mi chinavo su di lui e lo scaldavo come solo una donna sa fare. Come neppure l'Eterno Iddio aveva saputo, né avrebbe mai saputo fare.
La sera stessa ci mettemmo in cammino sotto la volta delle stelle. Lasciammo l'Eden senza voltarci indietro - fuggiti o cacciati, che importa ora saperlo. L'aria si fece densa: si avvicinava un temporale, ma casa nostra ci avrebbe riparati. Ci aspettavano una soglia fiorita, un'edera che si arrampicava sul muro e girava oltre lo spigolo di pietra; un lume di candela, un caminetto acceso e il buon odore della legna di pino che bruciava. Raggiungemmo quella casa come sospinti da un vento favorevole e da lì non ci allontanammo mai più, se non per star dietro all'aratro o per raccogliere il grano.
Certo, sorella morte aveva lì dentro un suo alloggio e una sua branda. Ci scrutava, lo sapevamo bene, ma noi restavamo intenti a noi stessi, concentrati sulle nostre vicende.

Fu da lì , da quella casa, che l'avventura ebbe inizio.

giovedì 2 aprile 2020

Novella 3: L'UOMO CHE VOLEVA DISFARSI DI DIO


Un grande scienziato, fiero delle sue scoperte e invenzioni di rilevanza mondiale, un giorno decise che non c'era più bisogno di Dio.
Si recò dunque in Paradiso e lo affrontò a viso aperto: “Ormai l'umanità può fare a meno di te: la scienza e la tecnica hanno raggiunto una perfezione che eguaglia, se non supera, quella della creazione; dunque per favore fatti da parte, perché sei diventato inutile”.
“Effettivamente – rispose Dio – avete fatto grandi progressi, lo devo riconoscere e me ne compiaccio. Ma davvero siete diventati pari a me?
“Posso dimostrartelo - disse lo scienziato. A te la scelta: che cosa vuoi che faccia?”
“Perché non crei una vita umana plasmando il fango, come io feci con Adamo?”
“Niente di più facile”, rispose lo scienziato, e chinatosi cercava del fango con il quale, grazie a una recentissima tecnologia, avrebbe dato vita a una nuova creatura.
“Qui cercheresti invano del fango, - osservò Dio – In Paradiso non abbiamo simili incomodi”.
“Nessun problema” replicò lo scienziato estraendo dal taschino uno smartphone di ultima generazione. Guarda un po' qui dentro quante cose ho creato”. E gli mostrò un film di fantascienza dove si vedevano uomini, piante ed animali di tutti i tipi e di tutte le fogge; alcuni dalle sembianze consuete, altri del tutto originali e inesistenti nel mondo fisico.
“Molto bene! - fece Dio – Però queste sono immagini, non creature viventi. Non sai fare di meglio?”
L'uomo, che si aspettava questa obiezione, fece ricorso alla sua filosofia: “Immagini, certo. Ma tutto ciò che ci si presenta è immagine. Anche ciò che sembra tangibile e concreto è in realtà una creazione dei nostri sensi, una mera sensazione cui noi, e noi soli,  diamo un nome e la dignità di presenze. Dunque fra le immagini che ti ho mostrato e, ad esempio, un cane in carne ed ossa, non c'è alcuna differenza filosoficamente apprezzabile”.
“Perbacco... - disse Dio – non ci avevo pensato. Ma allora non sei tu a farmi visita in questo momento. Sono io che mi affaccio alla porta dei tuoi sensi e busso alla tua immaginazione. E se non sono altro che una tua creatura, puoi disporre di me a piacimento. Visto che vuoi liberarti di me, perché non mi uccidi? Io che vedo attraverso le cose mi sono accorto che hai un coltello alla cintola. Usalo, colpiscimi qui, al costato. C'è una vecchia cicatrice: me l’hanno fatta i tuoi avi con la lancia, mentre ero sulla croce più di duemila anni fa”.
L'uomo era disorientato. “Ti hanno ucciso, difatti, ma in modo imperfetto; tanto è vero che da allora la tua presenza nel mondo non è per nulla diminuita: anzi, si è ingigantita”.
“Sì, mi era parso infatti. Ebbene? Avrai pure un modo migliore per disfarti di me”.
“Se tutto nasce nei miei sensi e nel mio cervello – ragionò l'uomo quasi fra sé - Dio c'est moi, per dirla alla francese. E il modo più sicuro per eliminarti non è uccidere te, mero simulacro di Dio, ma suicidarmi.”
“Figliuolo, non dirlo neppure per scherzo! Non potrei mai perdonarmi di averti indotto a un simile passo. Io che ti amo in modo così esclusivo e disinteressato”.
“Tranquillo, non sono così sciocco. Non è necessario uccidere nessuno, basterebbe che ti rassegnassi alla tua inesistenza. Ti prego, fallo e lasciami in pace. Oppure, al contrario, dammi la prova della tua esistenza e me ne andrò sereno”.
“Oh bella, adesso mi preghi: è già qualcosa... Ma pensaci un attimo. Tutto l'universo: la bellezza, la gioia ma anche il dolore, i sentimenti, la complessità della natura, tutto è così palesemente divino... quale altra prova dovrei darti? Piuttosto, dammi tu la prova della mia inesistenza, se ne sei capace”
“io... non ce l'ho, questa prova – disse l'uomo ormai completamente confuso -; ma adesso torno a casa e mi metto a cercarla”.
“Molto bene, non mi dispiace affatto. Arrivederci dunque!”.
“Addio”, corresse l'uomo; ma arrossì perché si accorse che anche questo saluto altro non era che una promessa di rincontrarsi.

mercoledì 25 marzo 2020

NOVELLA 2: L'ULTIMA POESIA


Il re di un Paese molto lontano mosse guerra a un regno confinante, e in breve lo conquistò. 
Gli dissero che fra i tanti prigionieri c'era un Poeta. Allora il re, che era un tiranno spietato ma amante delle arti, lo fece chiamare e gli rivolse questo discorso:
"Per tutti i prigionieri la pena capitale verrà eseguita domattina; ma a te concedo il privilegio di altri tre giorni, affinché tu scriva un'ultima poesia. E se mi piacerà, avrai salva la vita!"
Il Poeta venne ricondotto in cella e gli furono forniti penna, calamaio e un buon numero di pergamene.
All'alba, il Poeta vide dalla finestra del carcere il boia in azione. Andò avanti per tutta la giornata e per quella successiva.
Scaduti i tre giorni, il Poeta fu ricondotto in presenza del re.
"La poesia non è finita, Signore".
Il re, che era di buonumore, accettò di dargli un altro giorno.
L'indomani, il Poeta gli domandò ancora tempo.
Il re si spazientì. "Ben mediocre Poeta sei, se nei giorni che ti ho concesso non hai saputo scrivere nulla. Ti darò ancora tempo fino a domani, ma sarà l'ultima volta"
La mattina del giorno successivo, il Poeta fu condotto nuovamente davanti al re.
"E allora, chiese questi, hai concluso l'opera?"
"L'ho finita signore", e porse al re una busta sigillata.
Aperta che la ebbe, il re guardò la pergamena, e questa si presentava così:
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Il re montò su tutte le furie e ordinò che il Poeta fosse condotto al patibolo entro l'alba successiva.

Ma poi cominciò a meditare, e più meditava e più gli venivano dubbi. La notte non riuscì a dormire, finché a un certo punto, poco prima che il sole sorgesse, dette nuovi ordini. Fu così che il Poeta, la cui testa era già bloccata in attesa del colpo di mannaia, fu liberato dei ceppi e lasciato libero di tornarsene a casa.
Il re si fece preparare una cornice ricchissima, di oro zecchino, e vi fece incastonare la pergamena. Volle che il quadro fosse collocato a fianco del suo letto, così da poterlo contemplare ogni sera prima di coricarsi e ogni mattina al risveglio. Il quadro era fatto così:
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Intanto il Poeta, nella sua casa, dedicava il tempo a meditare e a comporre.


In un primo periodo il suo stile era più semplice e aderente a quello degli esordi:


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Successivamente prevalsero modi più disinvolti:








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Passarono i giorni, passarono i mesi e passarono anche gli anni. Quando il Poeta invecchiò fu pubblicata la raccolta completa delle sue opere. Eccone qui la prima, preziosissima edizione:


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Il libro andò letteralmente a ruba e fu ristampato più e più volte. La fama del Poeta crebbe a dismisura, oltrepassò i confini del regno e si diffuse nel mondo intero.

Quando il Poeta morì gli furono tributati onori da vate e sulla sua tomba, a eterna memoria, fu apposta una lapide con la più significativa delle sue poesie, quella che recita:

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